Isola di Sardegna

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I popoli venuti dal mare

La Storia

Distanza complessiva da percorrere                            circa 435 Km
Tempo medio di percorrenza                                     circa 9 ore
Percorsi a piedi                                                        circa 30 minuti
Percorsi in traghetto                                                 circa  90 minuti
Tempi di sosta e visita                                              circa 8 ore
Durata complessiva dell'itinerario                               Due giornate




1. Alghero: Nuraghe Sant'Imbenia.
2. Sassari: Complesso preistorico di Monte d'Accoddi.
3. Porto Torres: Necropoli di Su Crucifissu Mannu.
4. Porto Torres: Ponte romano.
5. Porto Torres: Colonia romana di Turris Libìsoms e Antiquarium Turritano.


                                                                 


Il rapporto di un'isola col mare che la circonda è sempre ambivalente: il mare protegge e minaccia, allontana e avvicina, imprigiona nel conosciuto e si spalanca sull'ignoto. Lo si ama e lo si teme, lo si rispetta e lo si maledice.
Dal mare viene il forestiero, che può portare a suo capriccio la morte o la vita. Nel caso della Sardegna questo destino comune ad ogni isola è stato esaltato in entrambe le direzioni (il mare come difesa, il mare come minaccia) dalla particolare posizione geografica: lontana più di ogni altra isola del Mediterra­neo dalle coste del continente, la Sardegna occupa però in questo mare un po­sto così centrale che, fin dalle epoche più remote, non c'è stata nave che non l'abbia incontrata, deliberatamente o per caso, dinanzi alla sua prua. Parlare di "isolamento" nel caso della Sardegna è dunque tanto etimologicamente appropriato quanto storicamente semplicistico. È un isolamento che si spezza dì con­tinuo, che si apre senza sosta a nuove intrusioni, modificando di generazione in generazione l'identità cultu­rale e perfino gene­tica della gen­te isolana. Questo itinerario vuole proporre, attraverso un ampio giro nel territorio del Nord Sardegna cui corrisponde, nel tempo, un viaggio di circa quattro mil­lenni, un campionario esemplare di popoli che hanno lasciato nell'isola solide tracce del proprio passaggio. Si va dai visitatori pacifici della preistoria, mossi chi dal caso chi dal talento a intrecciare rapporti culturali e commerciali con gli indigeni, ad autentici professionisti della navigazione e dello scambio come i Fenici, entrati in importante relazione mercantile con i Nuragici, fino ai popoli conquistatori, i Cartaginesi, i Romani, gli Spagnoli. Ciascuno di questi visitato­ri, più o meno graditi, ha contribuito a costruire, strato per strato e spesso a di­spetto di se stesso e degli ospiti, l'identità complessa e multiforme della Sarde­gna moderna. Nessuna storia, a conti fatti, può essere isolata dalle altre: tan­to meno quella di un'isola.

1. Alghero: Nuraghe Sant'Imbenia.
L'itinerario, disteso su due giornate di viaggio con pernottamento alla Maddalena, è immaginato con partenza e rientro ad Alghero, città che si trova al centro di un territorio senza dubbio privilegiato dal punto di vista delle relazioni della Sarde­gna con l'esterno. Al di là della sua realtà emblematica di enclave cata­lana in terra sarda, capace di salva­guardare la sua diversità e la sua specificità locale per oltre sei seco­li, Alghero, la sua costa e il suo im­mediato entroterra significano an­che molte altre cose: un porto natu­rale straordinariamente felice come quello di Porto Conte (il Nympharum Portus dei Romani), una fertile cam­pagna, una zona mineraria sfruttata non solo nell'antichità ma fin dalla preistoria e, per quanto riguarda i Fenici (primo popolo "alieno" del nostro piccolo viaggio), il fatto di aprirsi sulla loro costa prediletta, quella occidentale, lungo la quale si allineavano gran parte dei loro prin­cipali insediamenti litoranei: Sulci, nell'isola di Sant'Antioco, Tharros e Othoca nell'Oristanese. Partiamo dunque da Alghero in direziono di Fertilia e Porto Conte, e di qui pro­seguiamo lungo la strada litoranea per Capo Caccia: circa quattro chilo­metri dopo Porto Conte, quasi al limite occidentale della baia, incontriamo sulla sinistra della strada il vasto insediamento nuragico di Sant'Imbenia (si può notare di sfug­gita che, nelle immediate vicinanze del sito, è stata portata alla luce una grande villa d'ozio d'età romana imperiale, con strutture termali, mosaici e vari ambienti dipinti). Il complesso nuragico è stato sottopo­sto a scavi sistematici solo a partire dai primi anni 80, benché l'esisten­za di un nuraghe in questo sito fos­se nota fin dagli inizi del secolo, ed ha restituito materiali d'interesse scientifico fuor del comune: in par­ticolare ceramiche fenicie e greche, comprendenti fra l'altro un'anfora fenicia piena di lingotti di rame. Sulla base di questi reperti è stato possibile ipotizzare l'esistenza sul luogo di una sorta di emporion nura­gico frequentato dai mercanti fenici in cerca soprattutto di metalli. Que­sti scambi, regolari e piuttosto in­tensi, dovrebbero risalire all'Età del Ferro, tra la fine del IX secolo a.C. e l'inizio delI'VIII: un'epoca decisa­mente avanzata per la civiltà nuragica e per la vita stessa del villaggio di Sant'Imbenia, le cui tracce più antiche sono databili al Bronzo me­dio (1600-1300 a.C.). Ma la persi­stenza delle popolazioni nuragiche e delle loro strutture urbane ben ad­dentro l'età storica e la loro interrelazione con i Fenici prima, con i Punici e i Romani poi sono comprovate da non poche testimonianze convergenti. Dalla stessa area, ricchissima di nuraghi, in cui sorge il complesso di Sant'Imbenia, e precisamente dal Nuraghe Flumenelongu, proviene del resto un bronzetto che costituisce la traccia più antica della presenza fenicia nella Sardegna nord-occidentale.

2. Sassari: Complesso preistorico di Monte d'Accoddi.
Lasciando ora momentaneamente la zona di Alghero, cui faremo ritorno alla fine dell'itinerario, ma restando sempre all'interno della fertile Nurra, regione più ricca di ogni altra di testimonianze "straniere", ci trasferiamo adesso nella campagna di Sassari dove, in vista ormai del mare di Porto Torres e di Platamona, sor­ge quella che, fra le innumerevoli emergenze preistoriche della Sarde­gna, è forse la più sorprendente e la più difficile da decifrare.
Dalla stra­da Porto Conte-Capo Caccia, attra­verso la provinciale per Santa Maria la Palma e La statale 291, raggiun­giamo la 131 Carlo Felice alla perife­ria di Sassari e la imbocchiamo in direzione di Porto Torres, percorren­done circa 11 chilometri, fino al bivio per Bancali: qui dovremo invertire la marcia, puntando di nuovo verso Sassari, e dopo circa un chilometro svoltare a destra nella piccola strada asfaltata, ben segnalata da un cartello turistico, che conduce al Monte d'Accoddi. Questo straordinario monumento archeologico, venuto alla luce un po' casualmente negli anni 50, costituisce un unicum non solo in Sardegna, ma in tutto il Me­diterraneo occidentale. Ciò che lo caratterizza è infatti un grande alta­re a terrapieno che, per il tipo di ar­chitettura e di concezione scenogra­fica, può essere paragonato solo al­le ziqqurat mesopotamiche. Al mo­mento dello scavo l'altare si presen­tava come una collinetta artificiale, dell'altezza di circa 8 metri, circon­data da una muratura di conteni­mento di forma quadrangolare, con una rampa d'accesso, priva di gradi­ni, della lunghezza di ben 75 metri. Intorno all'altare venne parzialmen­te alla luce un villaggio di capanne rettangolari, che per la maggior par­te si ritiene fossero destinate al soggiorno temporaneo dei pellegri­ni, mentre alcune, dall'aspetto più solido e stabile, appartenevano for­se ai custodi del tempio e alle loro famiglie. Ai piedi dell'altare, a sini­stra, fu inoltre rinvenuto un menhir rovesciato (ora ricollocato nella sua posizione originaria) alto 4,4 metri   e, sulla destra, due grandi lastre di   pietra, una delle quali del peso di   oltre 6 tonnellate, che sono state   interpretate come tavole sacrificali.   La grande pietra sferoidale che si i trova ora nelle vicinanze del monumento fu invece rinvenuta 300 metri più a ovest, non lontano da altri   due menhir. Oggi il monumento è   stato restaurato e ricostruito, non senza qualche forzatura (come quella appena citata) e anacronismo (il menhir in posizione eretta, ad esempio, non appartiene alla stessa fase di utilizzazione dell'altare, ma ad una di svariati secoli preceden­te), e il suo suggestivo, impressio­nante impatto visivo è alquanto av­vilito dalle strutture in tubi metalli­ci che lo circondano. Rimane tutta­via uno dei siti archeologici più af­fascinanti dell'isola e solleva inter­rogativi solo in parte risolti sulla sua origine. Si può affermare con una certa sicurezza che l'altare fu costruito alla fine del Neolitico re­cente (2700 a.C. circa), sovrappo­nendosi a un precedente insedia­mento di Cultura Ozieri, del quale restano nella zona molteplici tracce: oltre al menhir in sito e ai materiali emersi dagli scavi, una necropoli a domus de janas nelle immediate vicinanze dell'altare (alle sue spalle) ed un'altra, quella di Ponte Secco, lungo il margine della 131, a non più di 500 metri dall'imbocco della strada che porta a Monte d'Accoddi. Si è dunque in presenza di un evi­dente apporto vicino-orientale, o di mediazione egea, in un'area già in­tensamente frequentata dalle popo­lazioni prenuragiche. Come questo culto orientale sia approdato in Sar­degna non siamo in grado di dire con certezza, ma l'ipotesi più atten­dibile è senza dubbio quella di un gruppo di viaggiatori sbarcati, forse casualmente, sulla costa del golfo e penetrati in questa campagna gene­rosa in cui le condizioni climatiche e le potenzialità produttive non era­no poi troppo radicalmente diverse da quelle conosciute in quell'area fertilissima, fra il Tigri e l'Eufrate, in cui ebbero origine questi modelli di tempio e dove fiorirono le grandi ci­viltà fluviali del Vicino Oriente. Il modello del tempio-ziqqurat fu dun­que importato a Monte d'Accoddi, probabilmente accolto dalle popola­zioni locali insieme con i culti e i ri­ti che vi si accompagnavano e che si perpetuarono lungo un arco di dieci, forse quindici generazioni (l'altare fu ampliato nella cosiddetta "fase di Abealzu" - 2500-2400 a.C. - e uti­lizzato fino agli albori dell'Età del Bronzo, cioè fino al 1800 a.C. cir­ca). Un successo relativo, dunque: localmente solido, ma incapace dì espandersi nel territorio.

3. Porto Torres: Necropoli di Su Crucifissu Mannu.
Invertita nuovamente la marcia al primo bivio, ritorniamo verso Porto Torres lungo la 131 Carlo Felice e, al km 224, svoltiamo a destra in uno sterrato
che in circa 500 metri con­duce all'interessante sito preistorico di Su Crucifissu Mannu, la più im­portante fra le innumerevoli necro­poli a domus de janas che si susseguono su entrambi i lati in questo tratto di strada.

Porto Torres: la necropoli ipogeca di Su Crucifissu Mannu


Sparse su un tavo­lato calcareo pianeggiante vi sono oltre venti tombe, prevalentemente del tipo a pozzetto, ma alcune an­che a dromos, precedute cioè da un lungo corridoio d'accesso. Di parti­colare interesse la tomba XVI, nel settore sud-occidentale della necro­poli, che al momento della scoperta (avvenuta casualmente negli anni 50) si presentava ancora chiusa dal­l'apposita lastra di pietra e dunque intatta, il che ha consentito, oltre al reperimento di abbondante mate­riale fìttile, una perfetta ricostruzio­ne della sovrapposizione degli strati. In questa e in altre tombe (ad esempio la III e la XV) è venuta alla luce una notevole quantità di mate­riale, sia ceramico sia litico, attri­buibile con certezza alle cosiddette genti del Vaso Campaniforme (o, con termine inglese, del Beaker), un affascinante esempio di popolo nomade della preistoria che prende nome dal particolare oggetto di cui, si può ben dire, ha riempito l'intera Europa: un bicchiere di ceramica dalla caratteristica ed elegante for­ma a campana (più largo cioè alla base e alla bocca, svasato invece nella parte centrale), decorato con motivi geometrici disposti a fasce orizzontali. Altri oggetti tipici di questa popolazione di grandi viag­giatori, artigiani, vasai e metallur­ghi sono i brassard, o guardamano, ingegnosi oggetti di pietra e osso che servivano a proteggere il polso dal rimbalzo della corda dell'arco. Questa popolazione brachicefala (il che fa supporre un'origine non me­diterranea, forse da ricercarsi nell'Anatolia interna e nelle regioni del Mar Caspio e del Mar Nero) si diffon­de comunque in Europa a partire dalla Spagna: il che, aggiungendosi alle loro abitudini vagabonde, ha contribuito a far battezzare queste genti "gli zingari della preistoria".
La loro presenza è attestata dovun­que: nella penisola iberica come in Inghilterra, nella Scandinavia come in Russia, nell'Europa centrale come in Italia, sempre accompagnata dal­l'immancabile bicchiere a campana. In Sardegna, dove la loro frequenta­zione è specialmente ma non esclu­sivamente attestata nel triangolo Porto Torres-Sassari-Alghero, tutti i ritrovamenti concorrono ad avvalo­rare l'ipotesi che le genti del campa­niforme siano state, come altrove, accolte pacificamente e assimilate all'interno delle comunità prenuragiche, ricevendo sepoltura nelle stesse necropoli degli ospiti.
La necropoli di Su Crucifissu Mannu ha poi, all'interno del nostro itinerario, un secondo motivo di grande inte­resse. L'area fu infatti utilizzata in epoca romana, come dimostrano i solchi profondamente incisi sulla superficie della roccia calcarea: sono tracce evidenti del passaggio, regolare e frequente, di carri e veicoli da trasporto, diretti con ogni evidenza alla vicina, vitale colonia romana di Turris Libisonis per approvvigionarla di derrate agricole provenienti dalla retrostante campagna o, forse, di materiale da costruzione.

4. Porto Torres: Ponte romano.
Ancor più logico dunque che la nostra prossima tappa sia appunto Porto Torres, città oggi dall'aspetto non troppo invitante, che nasconde con understatement perfino eccessivo le sue glorie e i suoi tesori archeologici agli occhi del viaggiatore di passaggio. Questa fu in effetti, per importanza, vitalità commerciale, popolosità e floridezza, la seconda città romana di Sardegna dopo Karales (Cagliari), una delle due cui facevano capo le principali arterie della fittissima rete viaria romana: in particolare la strada che, seguendo un tracciato in gran parte identico a quello dell'attuale Carlo Felice, attraversava l'isola da sud a nord, da Karales a Turris, e quella costiera che, passando per Tibula (Santa Te­resa Gallura o Castelsardo), metteva in comunicazione i due più importanti porti del Nord Sardegna, Turris e Olbia. Il ponte romano oggetto della nostra prima visita nella città turritana faceva però parte di una terza strada, anch'essa di vitale importanza, che collegava il porto di Turris alla zona agricola della Nurra interna e a quella mineraria della costa occidentale, terminando nei pressi dell'attuale Alghero. Opera di notevole livello ingegneristico e monumentale, il ponte, lungo 135 metri e formato da sette arcate co­struite su pile erette con blocchi di calcare, è probabilmente databile all'età augustea. Sotto le arcate mi­nori si conservano i resti dell'origi­naria pavimentazione in trachite. La solidità della struttura è comprovata dal suo uso ininterrotto per secoli: solo in anni recenti, infatti, il ponte è stato chiuso al traffico motorizza­to. In precedenza vi transitavano perfino gli autotreni che assicurava­no i collegamenti fra il porto e il po­lo petrolchimico.

5. Porto Torres: Colonia romana di Turris Libìsoms e Antiquarium Turritano.
A dimostrazione che effettivamente tutte le strade portano, o almeno portavano, a Roma, quelle che confluivano a Turris, interrotte tempo­raneamente dal mare, riprendevano a Ostia, un paio di centinaia di mi­glia più ad est, dove le derrate agri­cole imbarcate qui venivano scaricate per essere trasportate nell'Urbe. A Ostia, infatti, esisteva
una sede di commercianti di Turris, testimoniata da un mosaico dove si fa menzione dei navicularii turritani, che contri­buivano con le loro navi cariche di grano all'approvvigionamento ali­mentare di Roma.
Dall'importanza del suo porto possiamo logicamente dedurre l'estensione della città, cer­to tutt'altro che modesta per l'epoca e per i livelli demografici della Sardegna.

Porto Torres: gli imponenti resti della colonia romana di Turris Libisonis


Non una metropoli, ma senza dubbio una popolosa città riviera­sca, cui Roma concesse, forse fin dai tempi di Giulio Cesare, lo statuto di colonia romana, con propri magi­strati elettivi. Di questa grande città rimangono tracce notevoli, an­che se quello che è stato riportato alla luce è certamente ben poco ri­spetto a quanto è sepolto sotto i molteplici strati delle epoche suc­cessive. In particolare, nei pressi della stazione ferroviaria, si conser­vano i resti di diversi edifici termali, il più imponente dei quali è il cosid­detto "Palazzo di Re Barbaro", completamente delimitato da strade la­stricate e con ampi saloni: il frigidarium (sala con vasche per il bagno freddo, decorata con mosaici poli­cromi) e i contigui locali dei tepida­rio (ambienti con calore moderato) e del calidarium (ambiente caldo). Notevoli i resti di un porticato par­zialmente restaurato e di una galle­ria con volta (criptoportico). Nella stessa area sorge l'Antiquarium Turritano, importante museo nazionale inaugurato alla metà degli anni 80, che ospita la ricca collezione comu­nale di oggetti e reperti di età nuragica, greca, punica, romana e bizan­tina. L'edificio è disposto su due piani. Al piano terreno vi è una pri­ma sala di esposizione con vetrine contenenti materiali provenienti da scavi compiuti in vari punti della città e dei dintorni: al centro della sala un'ara di marmo decorata a ri­lievo, dedicata alla dea Bubasti (divinità egizia con la testa di gatta).
Sulla cornice sono incisi i nomi di Marco Servilio e di Gaio Cestio, i due consoli in carica nel 35 d.C. (anno della consacrazione del monumen­to). L'altare, oltre che per le qualità artistiche, è importante per la ricostruzione della storia della città: testimonia infatti l'esistenza di un culto delle divinità egizie nella prima metà del I secolo d.C. Al piano superiore sono esposti i pannelli e i reperti relativi ai complessi termali di via Ponte Romano e alle necropoli più antiche. Vi sono inoltre reperti marmorei e ceramici della collezione comunale.
                               

SECONDA PARTE   





 
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