Isola di Sardegna

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A Pozzomaggiore per l’Ardia di San Costantino

Tradizioni



Evoluzioni di cavalli e cavalieri intorno al santuario


L'occasione: il 6 e 7 luglio.

In molte zone della Sardegna si ve­nera un santo che, per la verità, non potrebbe aspirare a questo titolo, non essendo mai stato canonizzato dalla Chiesa. Si tratta infatti dell'im­peratore romano Costantino, ogget­to di devozione nell'isola - cosi generalmente si afferma - per avere assicurato nel IV secolo la libertà di culto dei cristiani. Ma questa è in realtà una spiegazione piuttosto semplicistica, che non propone nes­suna ipotesi interpretativa della spe­cificità locale del culto, attestato in Sardegna quanto meno a partire dal XII secolo, ma certo risalente ad epoca assai più antica, forse al lun­go periodo della dominazione bizan­tina. È altresì documentata, nei se­coli successivi e fino a tempi recen­ti, la perplessità del potere ecclesiastico nei confronti di questo santo non ufficiale e delle pratiche magico-religiose connesse alla sua cele­brazione, guardate dalla Chiesa con malcelato sospetto. Ciononostante il culto non è mai stato apertamente proibito: al contrario il clero locale ha sempre cercato in tutti i modi di gestirlo e di indirizzarlo verso forme dottrinariamente accettabili.
A San Costantino Imperatore (Santu Antine), oggetto di una devozione ingenua e spontanea, si attribuisco­no azioni mirabolanti e prodigiose, a cominciare naturalmente dalla vit­toria in campo aperto contro Massenzio al Ponte Milvio (312 d.C.), preceduta dal sogno premonitore con l'apparizione della croce e se­guita dall'Editto di Milano (313) che legalizzava il cristianesimo. L'Ardia di San Costantino riveste appunto i caratteri di una rappresentazione ri­tuale di questa battaglia, dalla qua­le le forze del male devono uscire sconfitte.
La più celebre delle Ardie è quella che si tiene ogni anno a Sedilo, co­mune oggi compreso nella provincia di Oristano, ma di antiche tradizioni barbaricine. Tuttavia l'Ardia di Poz­zomaggiore, di istituzione più re­cente, ha caratteri di originalità che la distinguono da ogni altra e, oltre ad essere frequentatissima dai pae­sani e dai pellegrini, offre uno spet­tacolo scenografico di grande attra­zione anche per i turisti.
A Pozzomaggiore la tradizione dell'Ardia risale agli anni immediata­mente successivi alla prima guerra mondiale, epoca tragica per tante piccole comunità agropastorali della Sardegna, letteralmente falcidiate dal conflitto nelle loro forze più gio­vani (basti pensare che, con la sua modestissima realtà demografica, l'isola offrì un contributo di circa 100.000 coscritti e, quel che è peg­gio, di quasi 14.000 morti, con una percentuale di caduti superiore di circa 4 punti alla media nazionale). Costantino Imperatore è, in certe zone della Sardegna, il santo cui la tradizione vuole che si chiedano grazie, tanto che tutti i santuari a lui dedicati sono rigurgitanti di ex­voto. A Pozzomaggiore la centupli­cata devozione dei reduci e dei loro familiari venne felicemente a saldar­si, nel periodo postbellico, con quella dei numerosi emigranti, rela­tivamente arricchitisi oltreoceano ma sempre ben disposti a sacrificare a San Costantino in cambio della grazia del ritorno. In breve furono raccolti i fondi e nel giro di soli tre anni il santuario fu ultimato e so­lennemente consacrato il 5 luglio 1923, per ospitare nei due giorni successivi la prima edizione dell'Ardia.
Accanto alla religiosità popolare, con la sua genuina mescolanza di elementi propriamente cristiani e di altri più arcaici, di tipo magico-rituale, nell'Ardia di Pozzomaggiore, come in quella di Sedilo, trova espressione la grande passione dei sardi per i cavalli e per le prove di destrezza e di coraggio che sono proprie dell'arte di cavalcare. Il 7 lu­glio di ogni anno, al termine della festa, viene nominato il priore, scel­to secondo precise norme di prece­denza in un gruppo di cittadini
che ne abbia fatto richiesta, cui spetta il compito di organizzare l'Ardia del l'anno seguente.

Sfilano per il paese le bandiere dirette al santuario di San Costantino


Il priore (oberaju majore) sceglie a sua volta il cava­liere che guiderà l'Ardia, protetto da una scorta di altri quattro cavalieri (ardia significa appunto guardia, scorta). La pantomima consiste in una finta battaglia, nella quale su kaddu 'e punta (il "cavallo di pun­ta", o primo cavallo) e i quattro che lo scortano devono proteggere sa pandeia (la bandiera con l'effigie del santo) dagli assalti degli altri cento e più cavalieri, che rappresentano nella finzione le forze pagane di Massenzio e che dovranno far figura di tentare di sopravanzare i cinque di sa pandeia, senza riuscirvi. Cosi vuole la tradizione: i cavalieri fanno finta de gherrare, fingono di dar battaglia. In pratica la cavalcata si traduce in gesti rigorosamente codi­ficati e tuttavia spettacolari nella loro concatenazione rituale.
La prima Ardia si svolge la sera della vigilia, il 6 luglio, con inizio intorno alle cinque del pomeriggio, e termi­na quando il sole è già tramontato. I cavalieri compiono al galoppo un percorso predeterminato intorno al santuario, tre volte in senso antiorario, le successive tre in senso ora­rio, suddivisi in coppie (pariglie) che devono procedere ad un forsen­nato galoppo mantenendo fra loro un perfetto allineamento e una sin­cronia senza sbavature. Su kaddu 'e punta galoppa solitario dinanzi a tutti, seguito dalle due pariglie del­la scorta: questi cinque indossano una giubba rossa e un copricapo ci­lindrico a forma di corona, mentre tutti gli altri cavalieri, pur non avendo alcun obbligo di tenuta ceri­moniale, vestono in genere una ca­micia bianca e pantaloni da fantino. La "battaglia" è cosi stilizzata che il capo dell'Ardia, al termine di ogni giro intorno al santuario, si arresta e, prima di ripartire, attende che tutti gli altri cavalieri, pariglia per pariglia, si allineino alle sue spalle. Quindi da di sprone per il giro suc­cessivo. Colpi di fucile caricati a sal­ve ritmano le varie fasi della rappre­sentazione, che si ripete con moda­lità pressoché identiche la mattina seguente, all'alba. Contemporanea­mente, quasi a fugare ogni dubbio circa la natura sacra del rito, all'in­terno del santuario si celebra la messa.

Le produzioni tradizionali della zona.

Fertilissima terra di origine vulcani­ca, il Meilogu è una delle regioni di più solida tradizione agricola di tut­ta la Sardegna, caratterizzata da una continuità di insediamenti che, dall'epoca prenuragica ai nostri giorni, non ha conosciuto interru­zioni. Come tutte le zone agricole dell'isola, ha subito in questi ultimi decenni un accentuato calo demo­grafico, al quale si è inevitabilmen­te accompagnata la scomparsa di al­cune produzioni artigianali. Il caso più paradossale è proprio quello di Pozzomaggiore, dove da ormai di­versi anni non c'è più nessuno che pratichi l'arte della tessitura: eppure esiste, e viene tuttora prodotta in altre parti dell'isola, una varietà di coperta dai vivaci disegni policromi, chiamata "tipo Pozzomaggiore" in omaggio a una tradizione secolare. Nella stessa Pozzomaggiore, come anche a Banari e a Bonorva, è inve­ce ancora praticata la lavorazione del ferro, anche nella varietà speci­fica della produzione di coltelli, arte che in Sardegna (e in particolar mo­do a Pattada) ha particolari caratteristiche di origi­nalità e gode di prestigio interna­zionale.
Banari, che offre al visitatore la pia­cevole sorpresa di un piccolo centro storico di grande dignità architetto­nica, è uno dei paesi del Nord Sarde­gna più rinomati peri suoi scalpelli­ni, eredi di un'arte nobile e antica, attestata in questa zona dai numerosi edifici religiosi e civili di eccel­lente fattura: quella della lavorazio­ne della pietra, e soprattutto della trachite.
Scomparsa a Pozzomaggiore, la tes­situra è invece ancora viva a Bonor­va e a Villanova Monteleone, due fra i centri più rinomati per i loro tap­peti ed arazzi. Su telai orizzontali dalla caratteristica forma legger-mente inclinata le tessitrici di Bonorva lavorano a punta de agu (o a mustra 'e agu), una tecnica assimi­labile al ricamo, che richiede da par­te dell'artigiano un'abilità particola­re ma che consente disegni di gran­de complessità e finezza descrittiva. I motivi ornamentali a broccato at­tingono soprattutto ai temi dei fiori (e dei vasi di fiori) stilizzati, dei pa­voni e delle gallinelle, dei cuori (sos coros) e ad elaborate costruzioni geometriche. La composizione cro­matica privilegia i chiaroscuri, gli accostamenti dei grigi e dei neri sopra fondi di lana bianca o greggia, oppure gli arabeschi bianchi contro il marrone scuro dell'ordito.
A Villanova Monteleone si tesse, ol­tre che con la tecnica a mustra 'e agu, anche con quella più rara detta un'in dente, dove in ciascuno dei denti del pettine viene fatto passare un unico filo di ordito. Il prodotto più diffuso è il tappeto di lana a strisce alternate, di delicata elabo­razione sia nella sobria policromia (spesso giocata sulla gamma dei gialli e dei marrone) sia nel ritmo della composizione, che alterna sa­pientemente i movimenti orizzonta­li delle ondulazioni e delle greche a quelli verticali delle losanghe so­vrapposte in lunghe file. Un altro motivo ornamentale tipico di Villa­nova, chiamato katalufa, tracciato preferibilmente nelle tonalità dei grigi e dei neri sopra l'ordito bianco di cotone, prevede invece complica­ti sviluppi di tralci, vasi di fiori, candelieri, alari, rombi, greche ed uccelli che, muovendo dal centro del tappeto, lo ricoprono interamente fino ai margini privi di cornice.
Un caso particolare per quanto con­cerne le lavorazioni artigianali è of­ferto da Borutta dove, all'interno del convento annesso all'abbazia di San Pietro di Sorres, esistono alcuni laboratori artigiani, gestiti dagli stessi religiosi con personale in par­te laico, che praticano la lavorazio­ne del legno e quella dei pellami, quest'ultima collegata principal mente ad un'altra attività di grande pregio: il restauro dei libri antichi. Le lavorazioni alimentari hanno, nel Meilogu, il loro settore portante nell'industria casearia. Thiesi, in particolar modo, è oggi una delle capitali italiane del formaggio, con una produzione di rilevante impor­tanza quantitativa e qualitativa specie per quanto concerne tutti i formaggi di pecora, freschi e soprat­tutto stagionati (pecorino sardo, fiore sardo, pecorino romano). Altri centri di produzione rinomata sono in questo campo Bonorva, Giave, Villanova Monteleone e la stessa Pozzomaggiore. Pregiati gli insacca­ti di Cheremule e di Siligo, dove si tiene ogni anno in dicembre una frequentata sagra della salsiccia.
Fra i prodotti agricoli impossibile non citare le ciliegie di Bonnanaro, fra le più rinomate dell'isola (frequentatissima la fiera delle ciliegie che si tiene nella prima decade di giugno).
Una particolare importanza riveste in questa regione la produzione arti­gianale del pane, che entra anche come componente di base in molti dei piatti tipici del Meilogu. Origi­nario di Bonorva (ma prodotto con caratteri analoghi anche a Cheremu­le e Cossoine) è su zichi, un pane dalla forma circolare, croccante, spesso a lunga conservazione, men­tre su zichi russu, a pasta dura con crosta e mollica compatta, è la va­riante di Pozzomaggiore. Pani a pa­sta morbida, soffice e con mollica porosa, noti per lo più col nome ge­nerico di "focaccia sarda", sono quelli di Thiesi (pane ammoddigadu) e ancora di Pozzomaggiore (pa­ne s'ammodde).
Su zichi è il principale ingrediente del pane coddhidu, piatto tradizio­nale di Bonorva che si era soliti pre­parare in occasione di feste comuni­tarie: altri elementi essenziali di questa versione logudorese del pan­cotto sono il brodo di pecora, le pa­tate, il lardo e il formaggio pecori­no. A base di pane, ammorbidito nell'acqua bollente o nel brodo ma poi scolato e disposto a fette alter­nate a strati di formaggio pecorino, è un altro piatto originario piutto­sto della parte occidentale della re­gione, il cosiddetto Paese di Villa­nova: chiamato pane a fittas, que­sto piatto semplice e saporito è in­fatti attestato a Villanova Monte­leone e a Padria.
Sempre nell'ambito di questa cucina povera e ingegno­sa, in cui il recupero del pane raffer­mo conduce a elaborazioni interes­santi, è da segnalare anche il pane doradu, una pagnotta bagnata nel­l'uovo e poi fritta nello strutto.


L’antico paese di Viilanova Monteleone conserva un'eccellentetradizione d'artigianato nel campo detta tessitura di tappeti


Nel Meilogu, come nel Goceano, si usa preparare una pasta di semola dall'aspetto non dissimile da quello del cus-cus, denominata su succu e utilizzata per la confezione di svariati primi piat­ti, come la pasta e ceci tipica della zona di Thiesi. Altro cereale larga­mente impiegato nel Meilogu è il granoturco (su trigu), ingrediente fondamentale di un piatto tipico della zona di Padria, alla cui prepa­razione concorrono vari elementi vegetali (verza, finocchio selvatico, cipolla), il pane e la carne di maiale.



 
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